Stefano Rolando ((Musei a cielo aperto – Passeggiate tematiche con i cittadini al Cimitero Monumentale promosse dal Comune di Milano con la collaborazione delle Scuole civiche della “Fondazione Milano”. Testo della conversazione svolta nel tragitto tra l’ingresso principale del Monumentale, il Famedio, Sale centrale e laterali, e i Viali tra le “Edicole” nell’area di ponente e di levante. Domenica 5 ottobre 2014.))
Buongiorno a tutti, grazie di avere accolto l’invito a partecipare a questa “passeggiata” che si svolge per un’oretta nel breve itinerario del Famedio e, poi, dei due viali centrali del Monumentale.
Il tema scelto è “Milanesi nativi e adottivi”. Ne capiremo meglio il senso vedendo i luoghi della memoria di molti di quelli considerati “illustri”.
Appunto nativi o adottivi, ma tutti legati alla storia di questa città a cui ciascuno di loro ha dato un contributo.
Io sono figlio di un milanese nativo e di una milanese adottiva e ho sempre apprezzato questo ampliamento delle radici che riguarda moltissimi milanesi autoctoni, cioè che avendo una radice lunga nella storia della città magari hanno sentito da piccoli i nonni parlare in dialetto e quindi hanno coltivato l’idea della milanesità magari anche dentro certi stereotipi. Ma hanno avuto anche il mondo in casa, cioè le differenze (nazionali e internazionali) a portata di mano e sono stati abituati ad apprezzarle. Mia nonna diceva per esempio “El mund l’è bel perché l’è vari”, voleva dire che magari non era d’accordo su qualcosa ma lasciava altri nel diritto di dirla. Però intanto diceva: “il mondo è bello”.
Innanzi tutto una parola su “dove siamo”. Siamo all’ingresso del Cimitero Monumentale di Milano, inaugurato nel 1866. In verità il bando per la costruzione del grande cimitero della città – in luogo dei sei cimiteri delle porte maggiori (cioè le zone storiche della città, quelle i cui simboli appaiono nella Loggia degli Osii a piazza dei Mercanti accanto allo stemma del Comune e insieme alla “scrofa semilanuta” e al “Biscione” come simboli principali della comunità milanese) – era stato varato nel 1838, un po’ sull’onda emotiva dei famosi versi del Foscolo dedicati una trentina di anni prima ai “Sepolcri”. Ricordate? “Anche la Speme,/ ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve / tutte cose l’obblio nella sua notte; / e una forza operosa l’affatica / di moto in moto ; e l’uomo e le sue tombe / e l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traverse il tempo”.
Siamo dieci anni prima della sollevazione dei milanesi contro la dominazione austriaca, cioè le Cinque giornate. Forse i tempi non sono ancora maturi per una grande costruzione riguardante la stessa comunità ambrosiana, nelle sue cose più identitarie: la vita, la morte, la memoria. Così i progetti rimangono nei cassetti e si rinvia al tempo dell’indipendenza.
E subito dopo la seconda guerra d’indipendenza, nel 1860, sotto l’egida dell’Accademia di Brera, presieduta da Camillo Boito, viene scelto il progetto dell’architetto Carlo Maciachini (così capiamo perché la via Maciachini stia proprio qui davanti) e in cinque anni tutto è fatto. Una grande costruzione (oggi di oltre 250 mila mq) con una architettura che, nella sua grandiosità, supera lo stile neoclassico con un certo eclettismo: tacce di romanico lombardo e di gotico-pisano persino con richiami bizantini. D’altronde lo spirito è di incentivare – anche per la costruzione delle tombe – libertà di architetture. E anche libertà religiosa (antico costume milanese dai tempi dell’editto di Costantino), tanto che mentre i viali centrali – li vedrete – sono ispirati prevalentemente alla religione cattolica, nel lato sinistro il Cimitero accoglie gli a-cattolici e nel lato destro in particolare gli israeliti.
Il Monumentale è considerato internazionalmente come un importante riferimento della moderna architettura funeraria. Esso è paradigma al tempo stesso di una città della cultura e dell’architettura (all’interno vedrete di tutto, liberty, neoclassico, tardo-romantico, neo-avanguardia); ma anche di una città industriale che, tra l’800 e il ‘900, racconta qui la sua classe dirigente.
In questo i milanesi fin dal ‘700 avevano un’idea un po’ sferzante della loro identità. Diceva Pietro Verri: “Milano è un paese dove chi ha testa cerca di comandare o se ne va”.
E anche la cultura popolare si allinea sull’idea che la città è quella del lavoro e dell’operosità.
Un po’ grossolanamente – ma il detto è celebre – dice il proverbio milanese: “Chi volta el cuu a Milan, il volta al pan”.
Lavorare e trasformare. Con la costruzione e l’apertura del Monumentale Milano avvia il suo ruolo di capitale industriale del paese scegliendo il modello europeo più che il modello del “bel giardino” italiano (a cui avrebbe – con il suo ambiente attorno – ben diritto di appartenere). Venti anni dopo, nel 1888, si celebrerà l’Esposizione Industriale Internazionale e nel 1906 si farà a Milano l’Expo – il primo Expo di cui il secondo a Milano è l’anno prossimo – dedicato alle infrastrutture, ai trafori e ai nuovi trasporti.
Il cambiamento diventa un po’ la religione dell’età moderna della città. E del resto se ora avete la cortesia di girare la testa e di guardare fuori dalla cinta di quest’opera ottocentesca vedete il nuovo skyline di Milano, qui davanti svetta la punta del palazzo dell’Unicredit, che segnala un nuovo pandant del cambiamento incessante.
Entriamo ora nel Famedio. Anch’esso di quella seconda parte dell’800 concepito all’inizio per ospitare nel 1883, a dieci anni dalla morte e in degna cornice, la tomba di Alessandro Manzoni – qui nello stile di Napoleone agli Invalides – e l’anno dopo quella di un’altra grande figura della comunità milanese, Carlo Cattaneo. Li vedremo vicini nella sala centrale con un terzo busto che si erge lì a ricordarci proprio la parità di racconto tra i nativi (come lo furono Manzoni e Cattaneo) e gli adottivi (come fu Giuseppe Verdi). Poi il Famedio (la cui parola origina dal latino Famae Aedes, cioè il Tempio della Fama) cominciò ad ospitare i costruttori della modernità, di cui i primi nel ‘900 furono Carlo Forlanini e l’architetto Luca Beltrami.
Per capire il rapporto tra una città e i suoi cimiteri, entrando meglio nella logica dei nativi e degli adottivi, dobbiamo aprire una parentesi demografica.
L’Italia nel 1861 è “piccola”, 22 milioni di abitanti. Raddoppieranno in un secolo, saranno 47 milioni nel 1950 per diventare oggi quasi 60 milioni. Nel 1861 la città più popolosa d’Italia era Napoli (447 mila), poi Milano (242 mila, nel 1800 erano solo 135 mila), poi Torino (205 mila), poi Palermo (186 mila) e solo quinta Roma (184 mila). Oggi è prima Roma (2.761), seconda è Milano (1.324), terza Napoli (959), quarta Torino (907) e quinta Palermo (656). Ma Milano è cresciuta fino al 1970 arrivando fino a 1.724 mila abitanti e poi decrescendo a 1.635 nel 1980 e sotto di altri 300 mila fino ad oggi.
Dobbiamo ricordare che l’emigrazione portò via dall’Italia – e in parti uguali tra nord e sud – 20 milioni di connazionali dal 1880 al 1920 e dobbiamo ricordare che Milano fu meta di una parte importante dell’emigrazione interna da sud a nord (il 17% dal ’52 al ’57, il 30% dal 58 al ’63) mescolandosi nella rilevantissima storia della ricostruzione e anche nella complessa (feci la comparsa, per ragioni di quartiere, a mille lire al giorno in “Rocco e i suoi fratelli” che è una fonte importante di questa complessità) ma sostanzialmente riuscita integrazione interna di cui il maggiore protagonismo lo ebbero le migrazioni dei pugliesi, dei campani e dei siciliani. Nell’edilizia infatti Milano assorbì l’85% del totale immigrato, dai 32 mila del 1955 agli 87 mila nel 1961.
Veniamo alla milanesità. Ci sono dei modi dire – assai noti – che celebrano un po’ l’orgoglio della città, diciamo pure anche una sua certa consapevole sbruffonaggine. “ Milàn e poe pu ” (Dopo Milano nient’altro), “Milàn l’è ‘n gran Milàn” (non c’è bisogno di traduzione per il celebre verso della canzone di Danzi); oppure ancora “De Milàn ghe n’è doma vun” . Se vedete bene è la città (detta al maschile) grande più che i suoi cittadini. E’ il contenitore che fa grande i suoi abitanti. Forse qui sta anche un certo spirito di accoglienza e di integrabilità. Chi lo comprende alla fine diventa più assertore di quel “primato” degli stessi milanesi autoctoni. Diceva lo scrittore milanese Carlo Castellaneta: “Mi sono sempre chiesto perché mai Milano, priva di bellezze naturale o di un clima mite, sia così amata dai meridionali che vi si stabiliscono”. O come diceva il toscanissimo Arrigo Benedetti – che diresse giornali a Milano e a Roma – osando comparare le città: “Che differenza c’è tra Roma e Milano, a parte il fatto che lassù si lavora?”.
Già, l’etica del lavoro, il comune concorso – di idee e di braccia – agli anni della ricostruzione, la condivisione (mista a una critica che sprona sempre il cambiamento) a quei motti d’orgoglio. Alla fine gli italiani (e qualche straniero pure) che la scelgono fanno di Milano una città che non si subisce.
Forse tra nativi e adottivi il dialetto (ma ormai la cosa è quasi irrilevante) è rimasto a segnare la differenza. Perché averlo sentito nelle case, sui filobus, nelle periferie, nei circoli buoni, strascicato e tradotto di frase in fase – come facevano i nostri vecchi milanesi – lo rende per certi nativi (almeno di una certa età) una tiritera intrinseca. Per gli adottivi al massimo lo si parla alla Abatantuono. Ma non è un territorio in cui a chi è mancata l’esperienza di infanzia vien voglia di addentrarsi. Come sappiamo tutti una certa cultura musicale a Milano ha cercato di fare legami importanti. Penso a Enzo Jannacci e penso a certe sue cose poetiche come Vincenzina.
E’ venuto ora il momento di parlare un po’ dei nomi illustri. Nella nostra passeggiata abbiamo trovato ora libere le seggiole dello spettacolo che le Scuole civiche stanno preparando per il pomeriggio. E possiamo permetterci un momento di stanzialità. L’arpa, che prova, ci farà da sfondo e ci permetterà di raccontare un’altra storia.
Nel preparare la mostra Identità Milano – che si è svolta in Triennale dal 7 aprile al 2 giugno – ho avuto il compito, arduo e davvero difficile, di scegliere 200 volti e quindi 200 biografie (tra le 500 che come Comitato brand Milano sono state selezionate) – per mostrare “milanesi nativi e adottivi”, tra l’800 e il ‘900, che hanno “fatto grande la città”.
Quella mostra – che ora girerà per tre mesi nelle zone, secondo un calendario che sarà comunicato in rete (Comune e Triennale) – serviva a mettere in evidenza, per farne oggetto di dibattito pubblico, tutti i segni del patrimonio simbolico collettivo che noi chiamiamo “identità”. Identità vuol dire le cose che sto dicendo ora, gli argomenti che vi sto illustrando. E che sento che vi interessano, vi riguardano, muovono vostri sentimenti.
Tra i patrimoni materiali e immateriali ci sono le figure umane che hanno interpretato storie, sogni, eventi. Lieti e drammatici, quotidiani e epocali, attorno alle avversità e alle riscosse della nostra “casa comune”. Molti di quei duecento stanno in questo Famedio. Alcuni stanno nelle “edicole” – così si chiamano le architetture delle tombe famose che tra poco visiteremo nei viali – che vediamo qui sotto. Altri non stanno qui al Monumentale, ma stanno in modo monumentale nella nostra memoria o nei libri delle nostre biblioteche di casa.
Farò una cosa ancora più ardua. Sceglierò per voi una decina di nomi tra i nativi e altrettanti tra gli adottivi, non compiendo una scelta di importanza, ma di significato delle vocazioni della città. E proverò a segnalarveli.
Tra i nativi (qualcuno – come si dice a Milano – magari un po’ arioso, perché nato, come si usava per altro anche un tempo, fuori città) ho scelto Giulia Beccaria, non solo perché cotanta figlia (di Cesare) e cotanta madre (del Manzoni) ma anche perché protagonista del suo tempo e, si dice, grande nonna (ho detto nonna, per via dei suoi tantissimi nipoti di cui si curava). Ho scelto naturalmente Carlo Cattaneo (rara mescolanza di cultura, progettualità e sentimento politico e civile). Poi un nome che magari vi dirà poco, Giuseppe Colombo, che è tuttavia un esempio di quel passaggio tra fine ‘800 e primi ‘900 in cui Milano è città di punta di tutto. Lui fu presidente della Edison, rettore del Politecnico, presidente del Credito italiano, consigliere comunale, deputato del Regno, ministro delle Finanze e ministro del Tesoro. Renzi lo avrebbe già rottamato, ma i libri ce lo raccontano come chi assicurò per primo a Milano la luce elettrica. Scelgo Virgilio Ferrari, secondo sindaco di Milano nel dopoguerra, pur rendendo anche omaggio al suo predecessore, Antonio Greppi, perché maneggiò i fondi della ricostruzione di Milano (assicurando anche i risultati) e morì in una casa di riposo in condizioni non dico di povertà ma di grande semplicità. Cito Carlo Emilio Gadda perché il suo racconto letterario della milanesità ha segnato il ‘900. Permettetemi di citare Paolo Grassi (di cui sono stato assistente) che spiegò alle autorità e alla popolazione che, in quella ricostruzione, il teatro – ove rappresentare le emozioni collettive – valeva come assicurare le linee del tram e l’ebbe vinta. Cito – l’abbiamo già detto e non ha bisogno di argomenti – Alessandro Manzoni (il democratizzatore della lingua italiana). Scorro l’elenco e vorrei citare la Melato, ma devo dirne dieci e quindi non posso (ma intanto l’ho detta). Intanto Jannacci l’ho pure già citato e prima o poi – fuori elenco – troverò il modo di citare Gaber. Cito il fondatore della Pirelli (Giovanni Battista) perché quell’impresa è ancora lì a rappresentare Milano nel mondo. Cito la Laura Solera Mantegazza perché l’assistenza sociale e l’emancipazione femminile le devono moltissimo e la Cristina di Belgiosioso perché fu la tessitura dell’informazione e delle relazioni decisive attorno alle Cinque giornate. E sono desolato di essere arrivato a dieci e di rinviarvi al più lungo elenco per gli altri nomi.
Tra gli adottivi sono un filo più largo. Sempre in ordine alfabetico comincio con Maria Callas, nata a New York da famiglia greco-americana, che dopo un debutto all’Arena venne ascoltata per un provino dal direttore della Scala, tale Mario Labroca e scartata. Tullio Serafin aspetterà nel 1950 l’indisposizione della Tebaldi per farla debuttare in Aida e da quel giorno il suo rapporto con lo Scala fu indissolubile. Lucio Fontana nacque a Rosario in Argentina. Se andate al Museo del Novecento trovate dedicata a lui la sala più alta, all’ultimo piano. Cercò di integrare pittura e scultura. La gente vedeva quei tagli e diceva “Ma questo lo so fare anch’io!”. Tanto che Bruno Munari ammoniva: “Caso mai si dovrebbe dire: questo lo saprei rifare anch’io”. Intanto lo aveva fatto lui. Abituando le nuove generazioni a vivere nei simboli e nei segni del proprio tempo. Metto il nome dello svizzero Ulrico Hoepli perché non c’è laureato al Politecnico che non abbia usato un suo manuale. E in generale non c’è tecnico che non abbia fatto uso di un suo libro. Cito Anna Kuliscioff non per farmi perdonare di non mettere qui tra i pochissimi il suo compagno Filippo Turati (che sta ovviamente tra i duecento) ma perché la sua storia è davvero straordinaria, soprattutto come medico-ginecologa legata ai diritti delle donne. Cito il piemontesissimo Carlo Maria Martini che rese Milano capitale internazionale dell’ecumenismo e per il quale si riformò, al congedo, la lunga fila dei cittadini davanti al Duomo nella silenziosa riscoperta dell’importanza dei valori comuni. E anche Enrico Mattei – marchigiano, tra i capi della resistenza – a cui chiesero di liquidare l’Agip e lui, facendone invece l’Eni, fece a Milano un punto nevralgico dell’economia dell’energia. Cito in coppia (come andrebbero in coppia Motta e Alemagna, Pirelli e Falck, Inter e Milan) i nomi di Mondadori e Rizzoli per ragioni note a tutti. Cito anche il vescovo di Milano Montini – poi papa Paolo VI – perché rivelò un tomento nel rapporto tra la Chiesa e il nostro tempo che aveva come retroterra la cultura di questa regione. Cito Montanelli perché – pur con tante trasgressioni – fu l’unica voce davvero ascoltata dalla borghesia milanese. Cito Giulio Natta, ligure, che fece la ricerca italiana (lui inventò la plastica) degna del Nobel. Cito Quasimodo (per ricordare i grandi siciliani a Milano e il suo verso fulminante e inestimabile: “Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di Sole: / ed è subito sera” (e in pari tempo ricordo la figura di un altro grande poeta, ligure, che fu la terza pagina del Corriere, un altro premio Nobel, come Eugenio Montale, che pure immaginava Milano come un “insieme di eremiti”). Non posso non citare Arturo Toscanini (che riposa in questi grandi viali) e la direzione della Scala nel simbolico concerto della ricostruzione. E con lui – ovviamente – milanese adottivo per eccellenza, il più celebre compositore italiano, Giuseppe Verdi. I nomi che restano nel mio elenco sono tanti, troppi (qui davanti ai miei occhi, tra gli adottivi, quelli del mio amico e compagno di scuola, sia pure in licei diversi, come Walter Tobagi, degno di stare nel pantheon della democrazia italiana), ma davvero mi sono ripromesso la brevità.
E tuttavia vorrei concludere con altri due nomi. Uno fuori dal tempo e l’altro fuori dal luogo comune.
Ad un giornalista straniero in un incontro in Triennale che mi ha chiesto: “Faccia un nome su tutti”, ho risposto con il nome di una donna, vissuta nel ‘400. Era l’ultima discendente dei Visconti – sto parlando di Bianca Maria, figlia di Filippo Maria Visconti, rimasto senza eredi maschi – che per non riattivare le guerre civili e per salvare il ruolo internazionale di Milano sposò il capo della famiglia rivale insorgente Francesco Sforza, diventando la madre di Lodovico il Moro, mantenendo per sé il potere diplomatico della città e costruendo la chiamata dei grandi intellettuali del Rinascimento a cominciare da Leonardo. Vi basta?
E allora fatemi terminare con un nome insolito per la milanesità, quello del capo della dominazione austriaca che fu il nemico giurato dei nostri liberali e delle nostre Cinque giornate. Il feldmaresciallo boemo Josef Radetzky che provocò, per durezza di comportamenti, la stessa rivolta dei milanesi. Sposato a una contessa friulana, Franziska Stressoldo, i cui fratelli erano parte dei dominatori austriaci a Milano, il più famoso soldato dell’impero – celebre per la marcia musicale a lui intestata e per le sue vittorie contro Napoleone e contro Carlo Alberto – ebbe per tutta la vita una relazione con una lavandaia milanese che si chiamava Giuditta Meregalli che gli diede quattro figli e che lo rese un uomo a suo modo conoscitore e legato al popolo milanese. Questo senza togliere nulla alle ragioni della storia che dividono anche le persone per le loro scelte, condannando le parti sbagliate ma lasciandoci il diritto di indagare sulle complessità.
Argomento che vale anche per tante famiglie – con le loro vicende contraddittorie – delle classi dirigenti che ora riposano tra questi viali.
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